Big Data: 4 aziende italiane su 10 non sanno che cosa siano
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I Big Data «guideranno l'economia nei prossimi anni». Sempre che si sappia di cosa si sta parlando: secondo un'indagine del gruppo Adecco e dell'Università Milano-Bicocca, il 40% delle aziende italiane italiane non conosce il concetto e appena il 12% fa uso dei “grandi dati” a fini commerciali, mentre il 48% ammette di averne una padronanza solo parziale. Il campione è composto da circa 350 referenti aziendali ed è stato attinto tra società di varie dimensioni e settore di provenienza, con predominio di industria metalmeccanica-elettronica e commercio e servizi. Le Pmi rappresentano quasi la metà dell'indagine, ma il ritardo sul fenomeno non sembra essere una loro esclusiva: circa un intervistato su tre proviene da industrie di grandi dimensioni, in teoria più inclini all'aggiornamento digitale rispetto alle imprese di dimensione micro, piccola o media.
A che punto sono le aziende (e dove servono di più i Big Data)
I Big Data sono, semplificando, una collezione di dati informatici così estesa (“grandi dati”) da richiedere tecnologie apposite per la propria elaborazione. La loro analisi può fruttare vantaggi competitivi alle aziende perché fornisce informazioni monetizzabili in fase di vendita, ad esempio sulle abitudini o i gusti dei clienti. Un valore aggiunto fondamentale nell'era dell'economia online, come testimonia anche il fatto che la quasi totalità delle aziende li consideri una «opportunità» e non un rischio per la propria impresa. Da qui a fare investimenti effettivi, però, il passo è lungo: solo il 20% ha già avviato progetti in materia e un 10% dichiara di avere «intenzione di farlo», contro una quota del 32,43% che ammette di non avere nessuna azione in corsa e un ulteriore 37,16% che non manifesta alcun interesse. Un dato allarmante se paragonato al 12% di chi conosce i Big Data, in particolare pensando al tema della competitività delle nostre imprese in ottica futura.
Va detto, però, che il deficit italiano non è isolato. L'Unione europea rincorre i macro-investimenti già messi in campo da Usa e Asia, dove l'analisi dei “grandi dati” è un patrimonio che va dai colossi della Gdo come Walmart alle startup innovative. Non è solo l'Italia che deve accelerare il passo, ma l'Europa in generale, per esempio Paesi come Francia e Spagna. Stati Uniti e i Paesi asiatici sono molto più avanti. Si stima che il volume di dati immagazzinati su scala mondiale crescerà del 40% all'anno fino al 2020.
Dove possono essere più proficui? All'interno dell'azienda, i settori più beneficiati dai Big Data si rivelano il commerciale e il marketing, seguiti da It, comunicazione, finanza e produzione.
Il gap sui professionisti: troppo pochi o poco pagati?
Non che sia facile destreggiarsi tra estrazione e interpretazione dei numeri, sopratutto se si è sprovvisti della materia più preziosa: il capitale umano. Circa il 98% delle aziende intervistate da Adecco-Bicocca sostiene infatti che i candidati siano assenti o «difficili da reperire» nel mercato italiano, nonostante una ricerca affidata per lo più ad agenzie di risorse umane e università. Tra i ruoli giudicati più interessanti nell'immediato spiccano Big Data analytics specialist, data content&communication specialist, Big Data architect, data scientist e social mining specialist. Tutte figure che costituiscono la filiera dello studio delle informazioni online, con profili più orientati all'analisi (analytics specialist) o all'approfondimento dei contenuti (content&communication specialist).
Qualcuno, però, obietta che il gap andrebbe letto da una posizione opposta a quella suggerita dalle imprese: i candidati non mancano, sono le aziende a offrire condizioni retributive e contrattuali poco competitive. Su scala internazionale, secondo una stima del portale DataJobs, la retribuzione d'ingresso può oscillare tra i 50-75mila dollari. Un po' difficile immaginare medie simili in Italia, Paese che “vanta” alcune delle retribuzioni più basse d'Europa nel settore dell'Ict.
Almeno nell'oasi dei Big Data, stipendi e prospettive di carriera possono fare gola a talenti qualificati. Le aziende non sono poco attrattive e non è una questione retributiva, ma di formazione, da una parte c'è bisogno di maggiore orientamento ai giovani per indirizzarli verso i percorsi più virtuosi finalizzati all'occupabilità e dall'altra ad incentivare la collaborazione tra impresa e scuola.